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Anni fa, ad un convegno ascoltai un educatore dire durante il suo intervento che quando un ragazzo a 13/14 anni ha per interesse solo il calcio deve scattare un “campanello d’allarme” per i genitori.
Sul momento non compresi il senso dell’affermazione: mi piaceva il calcio, ambedue i miei figli maschi lo praticavano in una squadra giovanile, io ero dirigente accompagnatore della stessa.
Nel tempo, l’attività svolta come direttore e formatore al Club Prato Boys e al Polis Club, e il conseguente confronto frequente con i bambini e i ragazzi, alcuni particolarmente impegnati nella pratica sportiva, mi ha fatto comprendere appieno il senso di quanto avevo ascoltato.
Lo sport ha sicuramente, almeno in potenza, la capacità di veicolare tutta una serie di valori positivi (impegno, spirito di squadra, rispetto, lealtà, competizione, dedizione, spirito di sacrificio, altruismo…) ma molte volte, e nel calcio giovanile più che in altre discipline, l’attenzione prematura al solo risultato, la forte tensione agonistica a scapito dell’aspetto più propriamente ludico, rappresentano un ostacolo per la considerazione puntuale delle prioritarie necessità educative dei ragazzi.
Fra queste una delle più penalizzate è lo sviluppo della capacità di costruirsi delle relazioni significative di amicizia.
Nell’infanzia i bambini si cercano per giocare, per farsi compagnia, per soddisfare una serie di bisogni primari che fanno sì che un bambino nutra naturalmente simpatia verso coloro che li soddisfano meglio e che lo valorizzano e, viceversa, antipatie verso coloro che non rispondono adeguatamente a questi bisogni.

Con la pre-adolescenza e l’adolescenza inizia invece a strutturarsi un nuovo assetto di amicizia che va oltre l’essere “compagni di gioco” tipico dell’età infantile. Il gruppo dei pari età diventa il riferimento primario per i ragazzi in alternativa a quello genitoriale. rappresentando la matrice, il “brodo primordiale” da cui possono successivamente svilupparsi le vere amicizie.
Lo spiega bene lo scrittore C.S. Lewis: «L’amicizia nasce dal semplice cameratismo quando due o più compagni scoprono di avere un’idea, un interesse o anche soltanto un gusto, che gli altri non condividono e che, fino a quel momento, ciascuno di loro considerava un suo esclusivo tesoro.
La frase con cui di solito comincia un’amicizia è qualcosa di questo genere: ”Come? Anche tu? Credevo di essere l’unico…”.» (I quattro amori)
Il fatto di andare nella stessa scuola, di frequentare lo stesso ambiente, di praticare lo stesso sport, ecc. non comporta necessariamente l’amicizia. Chiunque condivida determinate esperienze rappresenta un compagno, ma soltanto chi, oltre a questo, avrà qualche altra cosa in comune diventerà realmente un amico.
Chi non possiede nulla non può dividere nulla; chi non sta andando da nessuna parte non può avere compagni di viaggio. (C.S. Lewis)
La meta o visione che accomuna gli amici non può essere il calcio, questo non ha la capacità di rappresentare il “punto di fuga” all’orizzonte verso cui possono convergere gli sguardi degli amici, perpetua solamente un modo di stare insieme infantile, da compagni di gioco.

Giocare a calcio infatti è un “fare insieme” qualcosa, non è cogliere quell’essenziale che è invisibile agli occhi (cfr Il Piccolo Principe) che rende l’amicizia qualcosa di più e di più profondo.
Fare insieme qualcosa, in questo caso praticare uno sport, aiuta a socializzare ma rende per sua natura solo compagni; l’amicizia, pur richiedendo la frequentazione, non è questo: si basa sul sentire e pensare insieme qualcosa e in questa condivisione differenziarsi dal resto dei compagni.
Questa visione comune, che guida il cammino fianco a fianco degli amici, porta nel tempo a sviluppare una profonda conoscenza e affetto reciproci tanto che l’amicizia si caratterizza inoltre per la benevolenza intesa nello stretto senso etimologico della parola: volere il bene dell’amico.
Come si esce da questo?
1) Innanzitutto sapendo ascoltare il “campanello di allarme” che può risuonare in determinate occasioni. Ascoltare un figlio che parla solo ed esclusivamente di calcio, di calciatori, di partite, di formazioni, di allenamenti, di fantacalcio… rappresenta per un genitore il “primo canto del gallo”: non bisogna arrivare al secondo.
2) Può essere opportuno iniziare un disinvestimento riguardo la riuscita agonistica di proprio figlio: siamo realmente sicuri che giocare bene a calcio, avere il posto da titolare nella squadretta più o meno blasonata della nostra città, partecipare al campionato regionale anziché provinciale…, sia ciò che più serve alla maturazione umana di nostro figlio?
O piuttosto è qualcosa che soddisfa una nostra aspettativa, che gratifica noi stessi per un risultato che magari non siamo stati in grado di raggiungere a suo tempo oppure che ci attribuisce un certo status nella nostra cerchia di amici?
3) É necessario adoperarsi a partire dall’infanzia e, sicuramente dalla pre-adolescenza, per favorire occasioni che possano suscitare nel ragazzo altri interessi e passioni senza abbattersi per probabili insuccessi. Sarà un processo lungo e faticoso, costellato magari da numerosi fallimenti. Ci sarà richiesto di uscire dalla nostra “comfort zone” e dedicare tempo di qualità e in quantità per svolgere attività con nostro figlio o per consentirgli di compiere determinate esperienze alternative.
Solo la passione smodata per il calcio può avere questi effetti collaterali?
Evidentemente no: ogniqualvolta la pratica sportiva, sia essa calcio, rugby, basket, ginnastica, nuoto, tennis, pallanuoto…, travalica la propria funzione, relativa, per diventare un assoluto cui sacrificare ogni altra possibilità di scoprire passioni alternative in ambiti diversi, si corre il rischio di limitare la capacità di sviluppare in futuro nel ragazzo profonde e significative relazioni amicali.
Fortunatamente esistono anche (rare) società calcistiche giovanili dove viene posta attenzione agli aspetti educativi del bambino o ragazzo prima ancora del raggiungimento di risultati sportivi di eccellenza, e dove magari i loro sforzi sono frustrati invece dalla mancanza di sensibilità educativa dei genitori che si accaniscono riguardo alla sola riuscita calcistica dei loro “campioncini” in erba. Si trovano “mister” interessati a insegnare calcio facendo divertire i bambini, distaccandoli dall’attenzione ai soli risultati sportivi privilegiando la relazione fra loro e con gli adulti di riferimento. Ma non sono la maggioranza e comunque ciò non è sufficiente se manca la dovuta attenzione alle necessità educative dei propri figli da parte di noi genitori.
Attenzione: non voglio sostenere che il calcio, e la pratica sportiva in generale, non abbiano una loro importanza nello sviluppo psicofisico dei nostri figli. Tutt’altro. Sottolineo unicamente il rischio che diventi un’esperienza esclusiva, “totalizzante” e che privi i ragazzi della sperimentazione in altre attività, in ambiti alternativi allo sport. La formazione umana non si può limitare alla sola pratica sportiva.
Nell’infanzia e nell’adolescenza è infatti di fondamentale importanza la sperimentazione continua, talvolta incoerente, che permette di scoprire interessi, propensioni, possibilmente passioni. Le stesse che potranno non solo favorire la nascita e il consolidamento di vere amicizie con coloro che vibrano per le stesse “visioni” ma anche guidare il ragazzo verso la propria realizzazione futura, a trovare “il suo posto nel mondo”.